RIFLESSIONE DEL PARROCO PER MEDITARE SUL VANGELO DELLA V DOMENICA DI QUARESIMA
Siamo ormai vicini alla Pasqua, tempo di morte e risurrezione. Nel vangelo di oggi vediamo come Gesù si avvicina progressivamente al mistero della morte. Lazzaro, il suo amico, si ammala gravemente. Gesù, anche se lentamente, si mette in cammino. Tornare in Giudea significa tornare dove avevano gìà tentato due volte di lapidarlo, significa andare a Gerusalemme, città dove vengono uccisi i profeti. Non si avvicina solo alla morte del suo amico, ma anche alla propria. Eppure sarà anche il luogo della risurrezione. E’ l’amore che decide i suoi passi, l’amicizia per il suo amico. Con quello che sta per fare a Lazzaro, Gesù compie un segno che illuminerà anche il proprio destino finale: morte e risurrezione. Ma deve entrarci in questo mistero e quando vede i segni della morte dell’amico scoppia a piangere. Ecco il dono delle lacrime tanto invocato dai padri della Chiesa come porta per entrare nel mistero che supera ogni comprensione e rompe le rigidità delle nostre difese rispetto all’enigma del dolore e della morte. Le lacrime sono l’entrata nel cuore del Padre, sono il sentire la solidarietà col Padre e con l’amico Lazzaro, sono la comprensione del disegno divino che Lui porterà a compimento col dono della sua vita, sono la visione chiara che con la forza dell’amore per il suo amico e per tutti gli uomini Gesù si tufferà nella morte per spezzarne il potere. Per Dio nessuno può restare fuori dai legami dell’amore, neppure se è nei lacci della morte. “Scioglietelo e lasciatelo andare”. Nell’assaporare l’odore della morte Gesù mostra cosa desidera il Padre per ogni uomo: la risurrezione.
Anche noi in questi giorni abbiamo incontri ravvicinati con la morte e sentiamo che quella morte riguarda anche noi. Per questo la paura acquista così grande forza, perchè abbiamo perduto la relazione col mistero della nostra finitezza e fragilità radicale. E’ come se scoprissimo improvvisamente che siamo mortali. Le conoscenze tecnologiche hanno anestetizzato, con la loro presunta onnipotenza, il mistero della morte che ora ci viene buttato in faccia risvegliando l’antico timore della fine.
Ci viene detto che siamo umani. Mi ha molto colpito l’intervista di un medico di Bergamo nel suo diario giornaliero nel reparto dei malati di coronavirus quando dice che il personale medico e infermieristico sta sperimentando una umanizzazione che prima non era prevista dal loro ruolo. Si davano informazioni tecniche, si era trattati più da numero o da malattia che da persone. Ora si trovano ad essere loro i “familiari”, perchè nessuno può avvicinarsi ai malati. La solitudine diventa la calamita potente che strappa dalle nostre paure e difese la nostra vera umanità. Credo che avvicinarsi al mistero della nostra finitudine significhi avvicinarsi alla nostra vera umanità. La dimensione del dolore e della morte ci aiutano a partorire quell’empatia senza la quale non saremmo persone umane. Di fatto temiamo la morte perchè temiamo l’amore, entrambe ci buttano fuori di noi e per uscire ci vuole il detonatore della fiducia che nel pensare troppo a noi stessi abbiamo smarrito. Questa emergenza sta dimostrando che sotto pelle abbiamo paura di stare da soli, non è il nulla che ci fa paura, ma l’assenza. Siamo fatti l’uno per l’altro. Così si vince la morte. Amando.