In occasione della 32° giornata mondiale del malato, celebrata Domenica 11 Febbraio, è stata organizzata nel nostro vicariato una «Lectio pauperum» nella parrocchia di Santa Rita. In quell’occasione i partecipanti hanno potuto ascoltare la testimonianza di Chiara, una giovane studentessa di medicina, che durante la sua adolescenza ha convissuto per anni con una leucemia. Chiara vive nel territorio della nostra parrocchia e più volte, nel corso di quegli anni, abbiamo pregato per lei durante le celebrazioni. Ecco, di seguito, la sua testimonianza.
Mi chiamo Chiara, ho 21 anni, e 6 anni fa la mia vita è cambiata completamente. Nel 2017 mi è stata diagnosticata una leucemia, poi un ciclo di cure di due anni e poi tutto sembrava finito. Ma finito non lo è stato per nulla. Nel 2021 mi viene diagnosticato un altro tipo di leucemia. Da lì altri sei mesi di cure, con ricoveri di almeno quaranta giorni ciascuno, poi un mese a casa e poi il trapianto di midollo da donatore, un donatore molto speciale: il mio papà.
In quei giorni così uguali, dentro a quelle stesse mura, ho potuto sperimentare tante emozioni: confusione, rabbia, un pesantissimo senso di impotenza legato ad una paura, paura di tutto. Paura dell’ignoto, paura di quello che oggettivamente nessuno può controllare. E allora l’unica soluzione qual è? Affidarsi. Affidarsi alle cure, ai medici, agli infermieri e a tutto il personale sanitario che per quei mesi e anni diventa la tua seconda famiglia. Cerchi di aggrapparti ad ogni parola di conforto che possono darti, a quelle certezze che la scienza può dare. Ti leghi a quei sorrisi spontanei che scambi mentre ti prendono la pressione, ad una carezza fatta mentre auscultano il torace. Le piccole cose diventano così grandi da poter riempire quelle giornate tanto vuote.
E poi un giorno mi sono lasciata sorprendere da una persona, nello specifico una ragazza, Anna. Con Anna ci eravamo incontrate una volta nel Natale del 2017, lei appena entrata in reparto, io in uno dei miei tanti ricoveri. Poi ci siamo perse, non ci siamo sentite per tanto fin quando ci siamo rincontrate nel 2021, entrambe con una seconda diagnosi di quel tipo. So che in questo momento magari penserete “che sfiga!”. Io invece ho pensato: “che fortuna!”. Perchè l’amicizia con Anna è stata ed è una fortuna grandissima. Ci siamo sostenute durante i lunghi ricoveri, bastava una parola, un semplice sguardo, ci capivamo al volo. Ognuna era la spalla su cui l’altra poteva piangere ma eravamo anche lo specchio della felicità dell’altra. Se sapeste quante ne abbiamo combinate con Anna in reparto: il Grande Fratello visto fino all’una di notte (per la gioia delle nostre mamme che dovevano fare nottata con noi), gli scherzi, le battute. Durante il nostro primo lungo ricovero di quasi quaranta giorni abbiamo scritto una canzone, abbiamo riunito i medici e abbiamo chiesto di farci uscire, eravamo stanche. Un giorno, eravamo entrambe ricoverate, ci siamo accorte che tutti i reparti dell’ospedale avevano una felpa che li identificasse e, notando che il nostro era uno dei pochi reparti senza, le abbiamo ideate. Creandole abbiamo potuto distrarre i nostri pensieri dalle continue paure e preoccupazioni e così dopo mille idee, scarti e suggerimenti ora una felpa rossa è indossata da tutto il personale della oncoematologia pediatrica. Io ed Anna quel reparto lo abbiamo rivoluzionato, abbiamo cercato di rompere quel silenzio assordante che senti lì dentro. Anna oggi è una bellissima stella, una delle più luminose, ma insieme abbiamo iniziato tanti progetti che ad oggi, piano piano, hanno preso o stanno prendendo vita anche grazie ad AGEOP, associazione che segue i bambini, i ragazzi e le loro famiglie durante questi brutti periodi. Tutto questo per rendere quei lunghi ricoveri pieni non solo di tristezza e paura ma anche di sorrisi e paradossale felicità, per rendere quelle mura piene di vita e non di sopravvivenza.
Arriva un momento però in cui ti chiedi: “perchè proprio a me?”. Perchè quell’impotenza e quella paura in un qualche modo devi riuscire a spiegartela. Purtroppo molto spesso non c’è una spiegazione a tutto e quindi devi semplicemente fartene una ragione. Ma secondo voi io, a 18 anni, potevo semplicemente accettare passivamente di aver avuto due diagnosi di questo peso? Assolutamente no e quindi l’unica era capirlo dal punto di vista scientifico. Avrei potuto comprare riviste, leggere articoli, invece ho scelto la strada più lunga e complessa: dopo la maturità data in ospedale mi sono iscritta a medicina.
Una scelta per colmare questa mia curiosità ma soprattutto per saziare quell’impotenza da sempre provata. Se penso alla Chiara dottoressa, però, voglio che sia una dottoressa che si ricordi sempre di essere stata paziente. Il mio obiettivo è quello di essere un medico, non di fare il medico, e di trasferire così tutto quello che lo splendido personale sanitario ha fatto con me in tutti questi anni.
Ad oggi nulla è finito: faccio controlli regolari e non vi nego che prima di ogni esame la paura torna ad essere tanta. Perchè, sì, quell’impotenza rimarrà a vita, resta una quotidianità della paura che a volte riesci a dominare, ma a volte diventa più pesante di te. Indubbiamente la mia è una storia importante, molte volte a 21 anni diventa ingombrante. Il mio passato è molto presente, ma nel futuro a quell’impotenza vorrei accostarci non più paura ma speranza.
Chiara