TESTIMONIANZA DI UNA PARROCCHIANA IMPEGNATA NELLA LOTTA AL COVID19

Carissimo Don Massimo,
l’ultima volta che ci siamo incontrati ci siamo lasciati con una frase “la Fede è attesa”; dopo circa un mese siamo stati travolti e stravolti da questa pandemia che ha sconvolto le vite di tutti noi, in modo diverso, ma in modo radicale. Improvvisamente il tempo si è fermato, ogni gesto nella nostra quotidianità congelato, le abitudini sospese , inondati da un carico di informazioni mediatiche che hanno creato paura, timori, confusione e sentimenti contrastanti tra rabbia e terrore di non avere più inconsapevolmente “garantito” il bene più prezioso, la VITA. La guerra ha avuto inizio.

Il 9 marzo ero in sala operatoria, come tutti i giorni; a metà mattina giunge la notizia ufficiale che il nostro ospedale nel giro di un paio di giorni sarebbe diventato l’ospedale Covid della città. In due giorni, in 48 ore contate, i reparti sono stati svuotati, i pazienti trasferiti e smistati su altre strutture, le sale operatorie disarmate, le attività chirurgiche organizzate in altri ospedali e tutto il personale informato della nuova organizzazione: infermieri di sala operatoria e di reparto addestrati a infermieri di terapia intensiva, tutti gli anestesisti rianimatori organizzati in turni per poter prendersi cura di 24 pazienti in rianimazione, medici di varie specialità organizzati per fare fronte a circa 200 ricoveri previsti nei reparti.

Il 12 marzo mi reco al S.Orsola e al Maggiore, dove attraverso l’accesso ai pronto soccorso, erano già arrivati numerosi pazienti Covid positivi, visito le rianimazioni e in poco tempo mi rendo conto di quello che avremmo dovuto affrontare da lì a poche ore al Bellaria: un inferno.

Dal 13 marzo arriva un’ambulanza dopo l’altra, alcune con due pazienti; paziente dopo paziente viene portato nei reparti. Le condizioni cliniche sembrano buone all’inizio ma prestissimo ci scontriamo con la prima difficoltà professionale e umana; veniamo chiamati in urgenza nei reparti, ci rendiamo conto che nel giro di un lasso di tempo brevissimo questa tipologia di pazienti si aggrava, si sviluppa la fame d’aria e siamo costretti a ricoverarli d’urgenza in rianimazione. Poche ore sono sufficienti per saturare i posti letto intensivi disponibili perché ci vengono anche trasferiti pazienti da altri ospedali, ormai al collasso.

Nel caos, nella confusione e nella necessità impellente di gestire tutto, abbiamo dovuto trovare il tempo di fermarci e capire le regole fondamentali per la vestizione e svestizione con gli idonei presidi di protezione individuale, che fortunatamente non sono mai venuti a mancare, per proteggere noi stessi. La prima regola: proteggi te stesso, poi vai sul paziente. Domanda : se il paziente è gravissimo? Se il paziente è in arresto cardiocircolatorio? Risposta: il paziente aspetta, devi proteggerti!!!!! Mi fermo e penso: noi anestesisti e rianimatori siamo abituati all’intervento in emergenza, dove il tempo è prezioso……ora dobbiamo rallentare i ritmi di intervento???? Se sì……il paziente?????
Ritorno però alla medesima risposta: aspetta!!!
Devo sforzarmi di trovare in questa regola di comportamento la regola della mia quotidianità: mi voglio bene, devo preservare la mia salute per poter prendermi cura dei pazienti e rientrare a casa dalla mia famiglia che amo profondamente. Mi devo abituare velocemente.
Metabolizzato questo aspetto, iniziano i nostri interventi sui pazienti.

Arriviamo nei reparti, facciamo il briefing con i medici di riferimento e andiamo a valutare i pazienti in condizioni peggiori. Mi avvicino a ciascuno di loro: ho un camice, tre paia di guanti, due maschere facciali, uno scudo facciale che mi ricopre tutto il viso. Mi sono chiesta come in quelle condizioni fisiche ci si può prendere cura, al di là delle valutazione clinica: puoi fare sentire solo la tua voce, nella voce devi rinchiudere l’affetto dei gesti: ti presenti, rivolgi loro parole di conforto spiegando che stiamo facendo il possibile per migliorare le loro condizioni, vuoi accarezzarli, lo fai, ma con tre paia di guanti: la carezza più asettica che si possa immaginare. Poi vorresti regalargli un sorriso, lo fai con naturalezza, peccato che non arriverà mai….ho solo due maschere facciali che mi coprono la bocca e il naso!!!!! Vorresti agganciare il loro sguardo per far loro sentire la vicinanza……peccato che abbia uno scudo di plastica che, seppur trasparente, riflette la luce e i tuoi occhi possono solo essere immaginati, ma il paziente non ha le forze di tenere aperti i suoi occhi, figuriamoci la possibilità di focalizzare lo sguardo lontano e distante di chi gli è accanto. Non potrò portare tutti in rianimazione, i letti sono contati, le strutture della città sature e le città vicine al collasso: inizia la medicina di guerra. Devi fare delle scelte, fortunatamente numericamente limitate, ma credetemi che dopo aver lasciato il primo paziente in reparto, mi è sembrato di averne lasciati cento……..lo saluti, ti giri e preghi…..quella persona è in una camera e deve aspettare, attendere che si spenga la luce, senza sentire né vedere i propri cari. Terribile. Umanamente inaccettabile. L’unica cosa che posso fare sollecitare l’intervento del servizio di cure palliative: una conquista! Una dignità della morte è protetta e un ponte per i parenti è garantito.

Dopo due giorni, vado a casa in lacrime, non può accadere tutto questo, non ce la faccio, non possiamo andare avanti cosi, invece…..è solo l’inizio.

Incomincio il turno in terapia intensiva. Cosa sappiamo di questo virus???? Cosa sappiamo di questa polmonite che pian piano porta ad un’insufficienza multiorganica senza scampo?????
Siamo fortunati, non siamo i primi in trincea, purtroppo altri colleghi hanno già affrontato il dramma e possiamo condividere le terapie e il tipo di cure necessarie. Solo un piccolo passo per ricercare la vittoria nelle le battaglie quotidiane in una guerra che sembra invece non lasciare scampo se non a pochi. Ogni giorno lavoriamo, ininterrottamente, al fianco di infermieri, di operatori socio sanitari e di altri colleghi, tutti catapultati in trincea. Dobbiamo rispettare delle limitazioni ambientali e fisiche per preservare la nostra salute e la salute di tutti quelli con i quali viviamo: ci sono zone ben delimitate, segnate sui pavimenti, che devono essere rigorosamente rispettate, le zone “sporche” e le zone “pulite”.
Inizia la paura di contrarre l’infezione che si scontra con le prime manifestazioni di stanchezza fisica e di morsa psicologica…..i primi decessi dei pazienti portano a galla la fragilità emotiva delle persone. I primi pianti, la rabbia dell’impotenza, la paura di non essere all’altezza della situazione e la voglia di tornare a casa lasciandosi tutto alle spalle……

Una delle tante mattine, mi si avvicina un’infermiera che conosco e con cui lavoro da tanti anni, mi prende da parte e mi dice “Caterina non ce la faccio, non riesco a lavorare con questi pazienti!”. La guardo negli occhi e le dico “E,. non sei sola, io sono con te e per te sai che ci sono sempre, entriamo insieme a fare la visita e tutto andrà bene “. Da quel giorno non si è più fermata! Sono rientrata a casa nel tardo pomeriggio, contenta per la condivisione, ma nella convinzione che le mie parole avrebbero necessitato di una conferma, che purtroppo non era nelle mie possibilità; ho deciso di affrettare un servizio, già peraltro in fase organizzativa: l’assistenza psicologica per gli operatori. Una piccola conquista in un mare di difficoltà!!!!!
Ritorniamo alla vita in rianimazione: se abbiamo lasciato soli i pazienti nei reparti, non possiamo lasciare soli i parenti di tutti i pazienti gravi in rianimazione. Decidiamo di chiamare le famiglie e dedicare loro il tempo necessario, al termine della visita. Dall’altra parte sentiamo voci disperate, talvolta una rassegnazione educata dalle informazioni continue da parte dei mezzi di informazione, spesso un educato dolore solo apparentemente controllato da richieste dettagliate sulle condizioni cliniche del proprio caro, quasi a volere cercare un modo per prepararsi al peggio in una graduale acquisizione di informazioni negative. Poi arriva, presto ed inesorabile la necessità di comunicare il decesso; si fa fatica, terribilmente fatica. Credo sia luogo comune pensare che un medico dovrebbe essere pronto e preparato a questo tipo di comunicazione, forse sì ma in circostanze diverse…….Devi essere pronta ad ascoltare, ad accogliere il dolore e a prendertene cura ricordando che per i famigliari siamo noi l’ultimo contatto che hanno con i loro cari, sei l’unica persona che può dar loro un saluto, rivolgere a loro una preghiera, benedire con un segno della croce sulla fronte prima di liberare il posto letto……fuori dalla porta c’è già chi ne ha bisogno. Siamo in guerra.

Dopo faticose e interminabili giornate di lavoro, ogni sera si rientra a casa. Il tragitto casa Bellaria e Bellaria casa lo percorro in scooter, ho respirato l’aria assaporandone ogni molecola, ascoltando la musica per staccare la spina e interrompere la fatica mentale. Entri in casa, ma non puoi abbracciare nessuno, devi mantenere almeno 1 metro di distanza dai tuoi cari, dormire in un’altra stanza, avere un bagno dedicato, mangiare a distanza, disinfettare ogni cosa con cui vieni in contatto e che può essere condivisa in casa…….una profonda fatica in un momento in cui avresti voglia di manifestare fisicamente tutto l’amore a tuo marito e alle figlie, un amore colmo di gratitudine per l’attesa, per la pazienza e per tutti i riguardi nei miei confronti. Non riesci a ripagare i tuoi cari come vorresti, la testa è piena di pensieri, non è semplice non pensare. Non fai a tempo ad andare a letto che sono già le h.6 del mattino e devi andare. In questi frangenti l’amore di chi si sveglia con me, mi fa compagnia, mi prepara il caffè e guardandomi negli occhi mi augura buon lavoro, è l’ossigeno per tutta la giornata. Chiudo sempre la porta ringraziando il Signore per avermi riservato come marito una persona speciale, gli mando un bacio da lontano e penso che possiamo farcela a superare il momento. Le mie ragazze????? Sono il mio orgoglio, stanno rispettando le regole comprendendone l’importanza; ogni tanto mi prendono in giro facendo battute sul Coronavirus, mi raccontano le loro giornate, tra lezioni online, compiti, pensieri e considerazioni sul periodo di isolamento sociale, riportandomi alla vita famigliare che mi manca tantissimo. Pensiamo insieme a cosa desideriamo fare quando tutto sarà finito, l’immaginazione e i desideri sono la nostra speranza di una rinnovata vita insieme.

C’è una profonda paura che non sempre si riesce a dominare….la paura della malattia; non ti lascia mai ed è alimentata dall’assistenza a vari colleghi, soprattutto medici di base. Nei loro occhi ho letto il terrore consapevole di ciò che sta accadendo….li vuoi aiutare ma ti immedesimi ed in una frazione di secondo devi riportare indietro la tua mente che è già andata al pensiero…e se ci fossi io al suo posto????….e concentrarti perché devi procedere: è un tuo paziente in questo momento!!!! I medici deceduti sono tanti e non lo dimentichi, è un pensiero con cui ogni mattino parti, lo porti sempre nello zaino del lavoro, è un pensiero con cui inizi la giornata, ti fa aumentare il battito cardiaco ma ti dà la forza per credere che la giornata che affronti sarà una giornata in meno nella guerra che stiamo affrontando

La Fede è un tempo d’attesa…